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FERRIERA TRIESTE: LA DOMANDA DA RIVOLGERE AD ARVEDI.



FERRIERA TRIESTE: LA DOMANDA DA RIVOLGERE AD ARVEDI.
L'assetto dello stabilimento triestino è legato al piano di AcciaItalia, in corsa per l'acquisizione dell'Ilva. Una vicenda che potrebbe risolvere definitivamente la questione ambientale della Ferriera. Ma servono conferme e chiarezza. Per tutti i cittadini, lavoratori inclusi.


14 gennaio 2017


Entro febbraio dovremmo conoscere se AcciaItalia, la cordata assemblata da Arvedi con Jindal, del Vecchio e CdP, verrà scelta per l'acquisizione dell'Ilva di Taranto. I pronostici la danno favorita sul gruppo concorrente Marcegaglia-ArcelorMittal, se non altro per la presenza diretta del Governo, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, nella compagine del Cavaliere. È previsto che lo stabilimento pugliese raggiunga una capacità produttiva di ghisa per 8,5 milioni di tonnellate. A Trieste se ne possono sfornare 5-600mila.

A quel punto, mantenere due distinti impianti produttivi, analoghi ma così sproporzionati fra loro, appare contrario a una logica di economicità. È sensato ritenere che la produzione di ghisa verrebbe concentrata in un unico sito, quello di Taranto. Vorrebbe dire che l'area a caldo triestina verrebbe dismessa, per scelta imprenditoriale. E a Trieste rimarrebbero laminatoio e logistica portuale a servizio dell'intero gruppo. 

La domanda da rivolgere al cavalier Arvedi è semplicemente questa: è fondata questa ipotesi?

Perché se lo fosse, ogni dibattito si svuoterebbe di significato. Amministrazione comunale, associazioni ambientaliste, cittadini prenderebbero atto che quanto auspicato da più parti si verificherebbe, per autonoma scelta dell'imprenditore. Le contrapposizioni politiche sul tema verrebbero (finalmente) meno. 

A quel punto, superato il tema ambientale, si affronterebbe seriamente e per tempo la sorte dei 250-300 lavoratori dedicati all'area a caldo triestina. Verrebbero destinati ad altre mansioni all'interno dello stabilimento triestino? Verrebbe loro prospettato un trasferimento? O che altro?

Organizzazioni sindacali e forze politiche dovrebbero preoccuparsi di chiederlo. E il cavalier Arvedi dovrebbe rispondere. Perché non è credibile che un industriale dismetta parte rilevante della propria attività a causa di un generico "clima ostile". Potrebbe farlo, invece, per una propria precisa scelta economica e organizzativa. Che però, con trasparenza e senza infingimenti, andrebbe serenamente spiegata. E affrontata con pragmatismo per le conseguenze economiche e occupazionali, positive e negative, che comporta.
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