La ricerca della verità deve affrontare ostacoli enormi. Muovendosi tra le probabili responsabilità dei massimi vertici politici egiziani, alla realpolitik dei rapporti tra Italia ed Egitto, densi di interessi strategici ed economici.
Ma proprio per questo una Nazione, se vuole definirsi tale, deve andare fino in fondo. Perché Regeni non era di una parte politica. Regeni era un Italiano.
24 gennaio 2017
Sulla tragica vicenda di Giulio Regeni emergono, un po' alla volta, piccoli pezzetti di verità. Il video del surreale colloquio con Mohamend Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti, ad esempio. Con la fondata ipotesi che sia stato organizzato dai Servizi egiziani che, da tempo, avevano messo sotto controllo il ricercatore italiano. Se ne ha notizia e visione appena un anno dopo la morte violenta di Giulio. E questo la dice lunga sulla reale volontà collaborativa delle autorità egiziane.
Autorevoli fonti inquadrano il caso all'interno di una competizione fra i tre servizi di sicurezza del Cairo. In particolare fra quelli militari che l'avrebbero gestito alla fine, con l'esito che sappiamo, e quello civile. Le medesime fonti - egiziane, con nome e cognome e già interne all'apparato dei servizi - spiegano come ogni passaggio risponde a una precisa filiera di comando. Ognuno, insomma, ha agito su ordine di un superiore. A risalire la catena, quindi, non si può che arrivare ad Al-Sisi, capo di governo dell'Egitto oltre che già al comando, e perciò profondo conoscitore, dei servizi di sicurezza militari.
Questo quadro induce a due preoccupazioni.
La prima. Quanto più in alto arrivano le responsabilità, tanto più difficile diventa accertarle e divulgarle. A meno che, proprio in Egitto, alcuni settori dei servizi non abbiano interesse a indebolire la guida di Al-Sisi. Anche attraverso rivelazioni e prove che lo metterebbero in difficoltà sul fronte interno e internazionale.
La seconda preoccupazione attiene alla realpolitik e investe l'Italia. La quale ha bisogno dell'Egitto per ricercare una qualche soluzione politica sulla Libia, anche in funzione di argine al traffico di esseri umani verso l'Europa. Ma, soprattutto, c'è l'aspetto economico.
Sono 130 le aziende italiane che operano e investono in Egitto. Su tutte l'Eni, presente con investimenti per quasi 14 miliardi di dollari. Estrae gas dal giacimento di Nooros, nel delta del Nilo, e petrolio nel deserto occidentale. E si appresta a sfruttare un enorme giacimento di gas di fronte ad Alessandria.
Poi c'è l'Edison (investimenti per 2 miliardi), Banca Intesa San Paolo, proprietaria della Bank of Alexandria, Italcementi, Pirelli, Italgen, Danieli Techint, Gruppo Caltagirone, e molti altri. Imprese di servizi, impiantistica, trasporti e logistica. Oltre al comparto turistico, con Alpitour e Valtour. E poi le infrastrutture da realizzare lungo il Canale di Suez appena raddoppiato. Sono anche centinaia, migliaia di posti di lavoro.
Ottenere la verità su Giulio Regeni, se mai ci si riuscirà, potrebbe costare un prezzo molto alto. Tuttavia è un impegno al quale l'Italia e il suo Governo, quale che sia, non devono rinunciare. Perché in tal caso il prezzo, in termini di autorevolezza e credibilità, sarebbe maggiore. Una Nazione che vuole così venire definita non può consentire, mai, che un suo cittadino venga impunemente sequestrato, torturato e ucciso da un'Istituzione straniera. Non può consentire che venga dimenticato e la sua famiglia privata della verità. Si dovrà fare tutto ciò che è necessario affinché non accada. Gas, petrolio e infrastrutture sono importanti, ma vengono dopo le vite umane.
Da parte nostra, va tenuta alta l'attenzione e va superata la sciocca etichettatura dei morti. Alcuni patrimonio della destra, altri della sinistra. Impariamo ad essere Nazione. Un Italiano ucciso è un Italiano ucciso. Uno di noi. Sempre, in tutti i casi.
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