È questo il dato politico che emerge, netto, dall’esito del voto di stanotte sulla mozione di sfiducia al presidente del Consiglio comunale Furlanic.
Una serata durante la quale, con compostezza, i 15 firmatari della mozione hanno spiegato le ragioni dell’atto. Nulla a che fare con la Storia: era ed è l’attualità sotto accusa. Quella del 2014, quando un’istituzione, che dovrebbe rappresentare tutte le sensibilità, viene meno al suo dovere di imparzialità e assume pubblicamente posizioni allineate esclusivamente con la propria parte politica.
La doverosa sanzione non è stata comminata. Il presidente Furlanic mantiene la seconda carica del Comune di Trieste grazie ai voti a lui favorevoli del Partito Democratico. Eppure, nel corso del dibattito, sia dal sindaco Cosolini che dal capogruppo PD TonCelli sono partite parole di forte condanna nei confronti di Furlanic. Parole, appunto. Non voti conseguenti.
Una commedia con il copione già scritto. Furlanic che inizialmente mantiene – anzi, rilancia – le sue posizioni, il Sindaco e il PD che lo riprendono duramente ma, come si fa con i bambini, annunciano che, di fronte a delle scuse e alla promessa di non farlo più, avrebbero perdonato.
Il presidente del Consiglio recita la parte a lui assegnata: borbotta qualche parola di circostanza senza convinzione e si risiede comodo sulla poltrona della presidenza. Pronto a incassare il risultato politico che arriva puntuale sotto forma di 22 voti a suo favore: quelli del centrosinistra, tutti quelli del Partito Democratico.
Che è il vero sconfitto di questa vicenda. Piegato davanti a una parte politica che ancor oggi sventola orgogliosamente la falce e il martello. Prono ideologicamente, perché anche l’eventuale perdita di due consiglieri di maggioranza – Furlanic e Andolina – conseguente al voto di sfiducia, non avrebbe compromesso la tenuta della coalizione che sostiene il Sindaco.
Il Partito Democratico di Trieste si fa beffe del proprio senatore Francesco Russo, che aveva pesantemente condannato l’azione di Furlanic e auspicato un compatto voto di tutta l’Aula per sollevarlo dall’incarico.
Ma, ancor peggio: il PD triestino certifica di essere altro rispetto all’inclusivo corso renziano. Qui, nella città “Sottoposta a durissima occupazione straniera, che subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe” (*), non si cambia verso. I Democratici nostrani si allineano alle provocazioni della sinistra estrema, confermano l’alleanza con i nostalgici delle bustine con la stella rossa.
Peccato. Un’occasione persa da parte di coloro che vorrebbero diventare il Partito della Nazione e si confermano, invece, il Partito della Divisione.
Nel centrodestra potremmo gioire per il regalo politico offertoci stanotte. Preferisco sottolineare l’amarezza.
Per come, in poche ore, si sia calpestato un evento storico che avrebbe dovuto segnare un punto di non ritorno fra il passato e il futuro di Trieste. Mi riferisco al concerto “Le Vie dell’Amicizia” diretto da Riccardo Muti in piazza Unità d’Italia, nel luglio del 2010. Dove, per la prima volta, i Presidenti della Repubblica di Italia, Slovenia e Croazia si incontrarono per chiudere un secolo di sofferenze e aprire queste terre a un futuro di proficua osmosi dentro la comune cornice europea.
Stanotte, il Partito Democratico con i propri voti ha sancito che Iztok Furlanic, nel riaprire vecchie ferite dalla sua privilegiata poltrona, non ha fatto nulla di così male.
Nel merito, un PD che immagino Matteo Renzi sarebbe il primo a ripudiare, ha di fatto ammesso che la sua Trieste è la stessa di quella di Furlanic: ferma al passato, cristallizzata in vecchie foto color seppia, divisa, martoriata, rannicchiata in posizione fetale dentro le sue tragedie.
(*) tratto dalla motivazione del conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla città di Trieste, 9 novembre 1956.
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